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sabato 6 giugno 2015

Steve McCurry ... un uomo per cui vale la pena piangere


Cinecittà, ore 10.30, temperature impossibili.
Io ed Marghe, orfane della grande fotografa M., ci dirigiamo a vedere la mostra fotografica di Steve McCurry.
Da brave ignoranti, l'unica cosa che sappiamo di lui è che ha fotografato una ragazzina afgana dagli occhi verdi. Provo una certa vergogna nei confronti di me stessa, ora.


Un po' di vergogna deriva dal fatto che l'ultima volta che ero stata a Cinecittà, ero a vedere Uomini & Donne. Per carità, lungi da me sminuire il potere di tali trashate, capaci in un'ora di permetterti di accostare la tua mente superiore a quella di un premio Nobel per la fisica, ma McCurry ha un qualcosa di etereo, divino, talmente profondo da farti sentire a disagio per qualsiasi cosa.

Il senso di colpa monta prepotente perché hai mangiato le gocciole a colazione, perché guidi un automobile, perché sei arrivata ascoltando l'ultimo CD degli OneDirection, perché da bambina hai fatto i capricci per comprare Barbie Magica Sirena.
Sono tutte cose delle quali in realtà non ti penti. Ma in quel momento, davanti all'immensità di quegli scatti, tutto diventa piccolo e sbagliato. Tutto ti infastidisce. Il bambino che invade il tuo spazio vitale, i fotografi della domenica che commentano i tempi di esposizione, la vibrazione del cellulare nella borsa. 
Dovrebbe esserci solo silenzio.
Anzi, dovrebbe non essere.
Il nulla.
Non c'è spazio per niente.

Insomma Steve McCurry è l'antitesi di LaChapelle.
E' facile, data la scarsezza del mio bagaglio culturale, metterli a confronto. E' inevitabile. Uno è il pop, l'altra è la vita. Uno è esplosione, l'altro implosione. Uno è per tutti, uno è per ognuno.
E la differenza è enorme.

La mostra di Steve McCurry ti porta in un'altra dimensione.
Entri nel teatro uno di Cinecittà e lasci tutto fuori. Anche te stessa.
La ragazza che qualche minuto prima ha guadagnato due euro di sconto all'ingresso (lo so, dovrei togliermi questo vizio) ridacchiando con il tipo alla cassa, quella ragazza è rimasta fuori. E sono entrata solo io. Un io diverso. Un io spoglio e disarmato.

Dentro è tutto nero. Delle bande di tessuto nero cadono dal soffitto leggere e mobili, creando un labirinto fatto di minuscole stanze chiuse in quattro pareti, aperte al sud-est del mondo e non solo.

E ci si mette qualche minuto a capire da dove si vuole partire.
Già, perché i numeri assegnati alle foto non indicano un percorso. Sono solo numeri, come quelli nel sacchetto della tombola. Sai che ci sono tutti, ma non ha importanza in che sequenza escano. Non sei tu a decidere, è qualcosa di diverso. Qualcosa di altro.
E allora all'improvviso lasci che i piedi vadano da soli, seguendo gli occhi. 
O sono gli occhi a seguire i piedi.
O nessuno dei due.

Sicuramente non sei tu a muoverti. Non lo stesso tu.
"Vedete le persone cambiano nel labirinto ... siate molto cauti. Potreste perdere voi stessi".
Perdonate la citazione.

Ad ogni modo, per ogni spazio ci sono quattro foto.
Ebbene, devi essere fortunato.
Molto fortunato.
Devi sperare che la foto sia l'ultima a capitarti sotto gli occhi.
Sì, perché sono quattro, ma solo una è la tua. Solo una delle quattro ha la forza, la capacità, l'inconcepibile prepotenza di sconvolgerti e distrarti da tutto il resto.
Se ti capita di vederla per prima, allora, non riesci veramente a guardare le altre. Perché nel retro della tua testa è lei a regnare sovrana finché ti trovi in quello spazio. Perché tutte le altre foto sono lì per fare da cornice a lei.
Una su quattro.
Non ce la fai ad assimilarne di più.
O almeno, non ce la faccio io. La mia testa è troppo piccola, gli occhi troppo sottili.

Per farvi capire.


Steve mi ha mostrato il mondo. Luoghi e persone di una realtà che non è la mia. Che non esiste. Che non sento più reale di Asgard, e questa cosa, terribile ma non per questo finta, potrebbe non cambiare mai. Nel mezzo di tutto quell'estraneo, di tutto quell'impossibile, vedo questa foto.
Degrado perfettamente in linea con scenari di guerra e povertà.
E' la didascalia a sconvolgermi.
Perché davvero, tra Etipia, Kabul, Pakistan ed India, Venezia non c'entra niente.
E invece sì.
Ed in quello spazio, non ricordo quali altre foto ci fossero.
C'erano, mi piacevano. Lo so perché mi sono piaciute tutte. Ma questa era nei miei occhi. E mentre l'audioguida descriveva la dirimpettaia, io cercavo di guardarla ma non riuscivo a smettere di muovermi a disagio e lanciare sguardi alle mie spalle. Finché restavo in quel quadrato, quella era la foto.
Punto.

E poi ho pianto. Mentre vagavo nel labirinto ho pianto.
Era tutto buio, i faretti fissi sulle stampe. Ho pianto liberamente perché, davvero, non esisteva la possibilità che qualcuno decidesse di guardare me davanti a tutto quel mondo.
Forse sì, se fossi stata una foto. Ora che ci penso, mi sento megalomane, ma sarebbe stato il ritratto di qualcuno che guarda. Sarebbe stata una foto "oltre lo sguardo".

Lì per lì però, io ero invisibile e torniamo alle lacrime.
La prima volta ho pianto per questo.


Ho pianto per la speranza.
Non solo perché grazie a questa foto quest'uomo ha ricevuto in regalo una nuova macchina da cucire per ricostruire la sua attività distrutta dal monsone.
Ma soprattutto per la speranza di quel sorriso.
Ha perso tutto. Tutto. E ride mentre "cammina per strada". Cammina per strada? Ma sta nuotando! E no! Nella mia vita, nel mio mondo sta nuotando. Nel suo cammina per strada.

La seconda volta ho pianto per il dolore.


Ed è strano. In tutto quel sud-est è stato questo a sconvolgermi ad impattarmi. Gli Stati Uniti. E non per la bellezza delle immagini. Non c'è paragone con le tinte calde ed i volti perfettamente imperfetti. E' stato perché questo è vero. E' un dolore reale. E' un dolore occidentale. Non so spiegarlo. Non è cinismo il mio. E' il discorso fatto prima. 
Questo è il mondo nel quale vivo e sono immersa. L'occidente. E' immediato.
Ed è un dolore bipolare. Perché se una parte del mio cervello soffriva, se le lacrime scendevano, un'altra parte di me pensava "Ma guarda te che culo!" .
Già, perché Steve era tornato a NY il 10 settembre. Era andato in ufficio, un ufficio dal quale si vedevano le torri. E allora per un momento la mia non-fede ha vacillato.
Ho pensato che deve esistere un qualche dio. Un Dio che ha messo Steve McCurry lì, in quel momento. Ed il pensiero mi ha inseguita davanti ad ogni scatto. Dalle monache buddiste che passeggiano, al cormorano prigioniero del petrolio nel Golfo, al pastore. Un dio, non so quale ma uno che mi è simpatico, ha deciso che McCurry dovesse essere lì. Come se al mondo non ci fosse, in quel preciso istante, niente di altrettanto bello da fotografare.

La terza volta ho pianto per la compassione.


Tutto il mondo la conosce. L'afgana rifugiata in Pakistan.
Quegli occhi.
E mi è capitato di vedere come sia diventata, ho voluto cancellare dalla mia mente l'immagine. Perché ciò che è immortale non invecchia, non cresce, non cambia. E'.
Marghe ha notato che ovunque tu sia lei ti guarda.
La moderna Monnalisa, l'ha chiamata.
Lo sguardo è altrettanto incomprensibile. Forse perché un dolore così non esiste. Non esiste qui, non esiste ora, non esiste intorno.

La quarta volta ho pianto per dovere.


Perché non si può non piangere davanti a questo. Perché mi sono chiesta se la pistola fosse finta, mi sono risposta che forse lo era, finta. Ma le lacrime, il naso che cola, l'espressione.
Si deve stare male. Devi perdere qualcosa, devi abbassarti, romperti, incrinarti. Devi essere umano.

Ma poi altre emozioni. Mille.


Volti perfetti dagli occhi imperfetti, o occhi perfetti su volti imperfetti. Steve racconta la vita delle persone e tu puoi capire tutto o niente.
Poi però scegli.
Ed ho provato una sensazione nuova.
Alla mostra di LaChapelle, la mia foto preferita era tale perché l'avevo capita al volo. 
Nel buio labirintico di McCurry, il contrario.


Questi occhi.
Ed è assurdo, perché ho sempre mostrato un certo astio verso qualsiasi cosa simboleggi lo svilimento della figura femminile. E, diciamocelo, il burqa non è esattamente il simbolo dell'emancipazione. La scelta non c'è e se c'è è spesso condizionata da sovrastrutture o sottostrutture culturali.
Eppure quegli occhi.
Li guardavo, e tornavo a cercarli a guardarli.
E avrei voluto scuotere l'immagine e chiederle "Cosa stai cercando di dirmi?".
Ed ho messo in dubbio tutto. Amo questi occhi. Li amo. Non so perché, non so come. So solo che lì, in quel momento, la dolorosa privazione di non poterli avere accanto sempre e per sempre mi ha stordita.
E volevo capirli e non potevo ed ero impotente.

E poi arrivi alla fine del percorso.
La domanda è solo una.


Che c'entra Robert De Niro?
Forse se ne sono accorti anche loro che quello non fosse il nostro mondo, che fosse troppo.
E allora hanno messo Robert alla fine. Come a dire "è tempo di tornare a casa".
Dunque Robert, pubblicità della Lavazza e selfie finale.


Serve per farti uscire meno spaesato.
Altrimenti non ne esci più.

Mika.

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