E quindi ieri l'ho fatto, finalmente.
Ho visto per la prima volta l'Opera. Io, profana, proletaria ed ignorante.
Eppure.
La prima cosa da sapere, gente, è che l'Opera è una forma di intrattenimento assai strana. E' invertita rispetto a quello a cui siamo abituati noi persone da Rock in Rome & Cinema con Pop Corn.
Perché gli attori cantano, tipo concerto. Ma non puoi decisamente cantare con gli attori.
Insomma, provate ad immaginare una platea di persone con la fascetta di Maria Callas legata sulla fronte che canta "Un bel dì vedremo" esibendosi in una serie di strani versi.
Non è bello.
Inoltre, è uno spettacolo. Una storia raccontata. Ma affinché si possa comprendere è necessario conoscerla. Dunque, io M. ed A. ce la siamo spoilerata in macchina.
Devo dire che i miei commenti non erano esattamente impegnati.
Il livello era "Ma è una sorella figlia della merda" aka una sfigata!
E lo è gente. Madama Butterfly, intendo.
L'hanno chiamata ChoCho. Poco importa che significhi farfalla. Io penso al cane.
Ho visto per la prima volta l'Opera. Io, profana, proletaria ed ignorante.
Eppure.
La prima cosa da sapere, gente, è che l'Opera è una forma di intrattenimento assai strana. E' invertita rispetto a quello a cui siamo abituati noi persone da Rock in Rome & Cinema con Pop Corn.
Perché gli attori cantano, tipo concerto. Ma non puoi decisamente cantare con gli attori.
Insomma, provate ad immaginare una platea di persone con la fascetta di Maria Callas legata sulla fronte che canta "Un bel dì vedremo" esibendosi in una serie di strani versi.
Non è bello.
Inoltre, è uno spettacolo. Una storia raccontata. Ma affinché si possa comprendere è necessario conoscerla. Dunque, io M. ed A. ce la siamo spoilerata in macchina.
Devo dire che i miei commenti non erano esattamente impegnati.
Il livello era "Ma è una sorella figlia della merda" aka una sfigata!
E lo è gente. Madama Butterfly, intendo.
L'hanno chiamata ChoCho. Poco importa che significhi farfalla. Io penso al cane.
Ad ogni modo. Siamo arrivati.
E abbiamo preso posto, sufficientemente eleganti e decisamente lontani dal palco. Ma poco importa.
Sì, perché prima che iniziasse c'è stato l'esodo tutto italiano, al grido di "ci sono posti liberi davanti, avanziamo!", al quale comunque anche i numerosi stranieri presenti hanno partecipato. Quindi tutto bene.
Adesso, non so quanto voi conosciate Madama Butterfly. Io ho scelto quell'opera per un motivo profondo e significativo.
Il nome.
A chi non piacciono le farfalle?
La cosa bella, anzi sublime, è dove ti trovi.
E il primo pensiero è "vaffanculo al mondo". Ai dollari, ai centri commerciali con le piste da sci, alle isole tropicali, a Chris Hemsworth che prende il sole nudo spiaggiato a Malibù.
Io in mezz'ora vado a vedermi l'Opera alle Terme di Caracalla.
Mettice na pezza.
Ma torniamo a noi.
Non so se sarebbe così per tutti, per me è stato un climax. Non parlo della storia, è una questione più cartesiana del tutto. Parlo di come l'ho vissuta io.
Il primo atto è stato imbarazzante.
Non in senso brutto.
Ero chiaramente affascinata, ma in difficoltà. Non riuscivo a sentirmi sola.
Era come se una parte di me facesse resistenza. Come quando sei davanti a qualcuno che ti piace, e non sai che dire, ed inevitabilmente il tuo cervello ti suggerisce vie d'uscita decisamente poco adeguate.
Così quando questa quindicenne che ha vissuto il doppio dei miei anni in esperienza dice
"Noi siamo gente avvezza alle piccole cose"
la facile battuta sulle dimensioni dei giapponesi mi si è affacciata sulle labbra sotto forma di risolino idiota.
Imbarazzo per me stessa.
Persona dissacrante.
Brutta persona.
Ma poi c'è stata la pausa. E non lo so. Come se il mio cervello avesse metabolizzato tra una vaschetta di cocomero e la fila al bagno.
E allora, il bisogno di seguire le parole per capire non era più così impellente, la gente intorno era sparita. La domanda latente nel retrocervello se fossero le terme a far da cornice all'Opera o il contrario.
Io sola. Davanti tutto.
E sono riuscita in qualcosa che non credevo.
E ho cambiato idea.
E ho capito Butterfly che non era più una ragazzina sciocca che insozzava lo status di una donna. Perché era anche mio padre ad essere stato costretto al suicidio. Era anche la mia famiglia ad essere caduta in disgrazia. Ero io stessa una bambina geisha che si affannava ad afferrare la mano di uomo americano.
E conoscevo la fine. Cosa che mi ha fatta piangere prima del tempo. Un po' come ogni volta che guardo Rugantino. Non importa quanto riso abbondi sul suo grugno. Io piango. Piango perché lo so come va a finire.
E le riflessioni su quest'opera sono molte.
In primo luogo.
Pinkerton.
Il disgusto.
"Quel giocattolo è mia moglie".
E diciamo che da una parte questo risolve lo spinoso problema di tutte coloro che ad un certo punto della loro vita si sono imbattute nel Signor Darcy. Le aspettative sugli uomini crollano inesorabilmente.
Non esiste un essere più spregevole, viscido, ipocrita, disumano.
Ed è pure grasso.
Manco fosse un figo.
Che poi, la versione portata in scena peggiorava il tutto.
Come se non fosse sufficiente l'agghiacciante frase riportata sopra.
Come se non bastassero l'abbandono e la premeditazione. No.
Hanno inserito elementi di modernità. Lo hanno reso un palazzinaro a Nagasaki. Cioè con tutte le radiazioni.
Tipo uno che vende le mozzarelle blu.
Che schifo.
E arriva la catarsi. Eccola. Un attimo prima sei tutta un "Cho ma porca merda non lo vedi che è un cesso?! Sposa Yamadori e lascia perde. NON TI MERITA"
Ed è proprio sul non ti merita che diventi madama Butterfly.
"Oh merda"
E allora cominci a giustificare. A chiederti come hai potuto vedere Darcy al posto di Pinkerton.
"Oh merda"
Non è autobiografia. E' semplicemente statistica. Succede a tutte. Che sia all'asilo, alle elementari o al centro anziani. Ce lo abbiamo nel DNA. Ad un certo punto, almeno mezz'ora nelle nostre vite, dobbiamo essere Butterfly.
E generalmente, possiamo dirlo non senza una punta di soddisfazione, la prendiamo meglio!
Catarsi.
Pinkerton è talmente disgustoso, talmente abietto, che anche alla fine, quando capisce fin dove ha fatto cadere Butterfly non è capace di provare compassione.
No signori miei.
Anche quando la stringe tra le braccia morente. Non è compassione, è senso di colpa. E c'è una bella differenza, credetemi.
Lui non si dispiace per lei. Non prova il suo dolore. Non sente i suoi singhiozzi.
Lui si dispiace per se stesso. Per il proprio rimorso. Per il ricordo di quella nota rossa sul registro (cit. Vedova Nera). Quello lo fa star male.
Non altro.
Non viene nemmeno toccato dal travolgente amore di quella bambina.
Dalla sua fede incrollabile.
Dalla cecità con cui ossessivamente ripete che lui tornerà perché la ama. E si fa beffe di tutti quando vede la nave. E non vuole vedere. Non vuole credere. Non vuole. Non sa. Non può.
Fino a che qualcosa di più importante accade.
E non è il Console, non è Suzuki, non è Kate "la moglie americana".
E' l'ultima cattiveria. L'ultima violenza. L'ultimo stupro.
Portarle via suo figlio.
E credetemi, borbottavo insulti verso Kate. Non perché avesse sposato Pinkerton (meglio te che io!), ma per la noncuranza con cui riusciva solo a chiedere se Cho fosse disposta a cedere il bambino.
E lei lo fa.
Accetta.
Accetta per il bene del piccolo, ma non solo. Accetta perché è stanca.
E davvero, la cattiveria della scena del bambino che cerca di raggiungerla, fermato da Suzuki e grida "mamma" mentre la domestica lo porta via, davvero, se la potevano risparmiare!
Cioè, ma davvero?
Come se non fosse stato abbastanza.
E intanto lei cantava, si muoveva, andava incontro al suo destino.
Ed è un male credere nel destino. Cavolo. Possiamo fare qualcosa, sempre. Sono le scelte, non il destino, a determinare le nostre vite.
Farfalla.
Ho pianto. Tanto. Disperatamente. In silenzio, più o meno.
Povera Butterfly.
"Nante koto da" o qualcosa di simile.
E abbiamo preso posto, sufficientemente eleganti e decisamente lontani dal palco. Ma poco importa.
Sì, perché prima che iniziasse c'è stato l'esodo tutto italiano, al grido di "ci sono posti liberi davanti, avanziamo!", al quale comunque anche i numerosi stranieri presenti hanno partecipato. Quindi tutto bene.
Adesso, non so quanto voi conosciate Madama Butterfly. Io ho scelto quell'opera per un motivo profondo e significativo.
Il nome.
A chi non piacciono le farfalle?
La cosa bella, anzi sublime, è dove ti trovi.
E il primo pensiero è "vaffanculo al mondo". Ai dollari, ai centri commerciali con le piste da sci, alle isole tropicali, a Chris Hemsworth che prende il sole nudo spiaggiato a Malibù.
Io in mezz'ora vado a vedermi l'Opera alle Terme di Caracalla.
Mettice na pezza.
Ma torniamo a noi.
Non so se sarebbe così per tutti, per me è stato un climax. Non parlo della storia, è una questione più cartesiana del tutto. Parlo di come l'ho vissuta io.
Il primo atto è stato imbarazzante.
Non in senso brutto.
Ero chiaramente affascinata, ma in difficoltà. Non riuscivo a sentirmi sola.
Era come se una parte di me facesse resistenza. Come quando sei davanti a qualcuno che ti piace, e non sai che dire, ed inevitabilmente il tuo cervello ti suggerisce vie d'uscita decisamente poco adeguate.
Così quando questa quindicenne che ha vissuto il doppio dei miei anni in esperienza dice
"Noi siamo gente avvezza alle piccole cose"
la facile battuta sulle dimensioni dei giapponesi mi si è affacciata sulle labbra sotto forma di risolino idiota.
Imbarazzo per me stessa.
Persona dissacrante.
Brutta persona.
Ma poi c'è stata la pausa. E non lo so. Come se il mio cervello avesse metabolizzato tra una vaschetta di cocomero e la fila al bagno.
E allora, il bisogno di seguire le parole per capire non era più così impellente, la gente intorno era sparita. La domanda latente nel retrocervello se fossero le terme a far da cornice all'Opera o il contrario.
Io sola. Davanti tutto.
E sono riuscita in qualcosa che non credevo.
E ho cambiato idea.
E ho capito Butterfly che non era più una ragazzina sciocca che insozzava lo status di una donna. Perché era anche mio padre ad essere stato costretto al suicidio. Era anche la mia famiglia ad essere caduta in disgrazia. Ero io stessa una bambina geisha che si affannava ad afferrare la mano di uomo americano.
E conoscevo la fine. Cosa che mi ha fatta piangere prima del tempo. Un po' come ogni volta che guardo Rugantino. Non importa quanto riso abbondi sul suo grugno. Io piango. Piango perché lo so come va a finire.
E le riflessioni su quest'opera sono molte.
In primo luogo.
Pinkerton.
Il disgusto.
"Quel giocattolo è mia moglie".
E diciamo che da una parte questo risolve lo spinoso problema di tutte coloro che ad un certo punto della loro vita si sono imbattute nel Signor Darcy. Le aspettative sugli uomini crollano inesorabilmente.
Non esiste un essere più spregevole, viscido, ipocrita, disumano.
Ed è pure grasso.
Manco fosse un figo.
Che poi, la versione portata in scena peggiorava il tutto.
Come se non fosse sufficiente l'agghiacciante frase riportata sopra.
Come se non bastassero l'abbandono e la premeditazione. No.
Hanno inserito elementi di modernità. Lo hanno reso un palazzinaro a Nagasaki. Cioè con tutte le radiazioni.
Tipo uno che vende le mozzarelle blu.
Che schifo.
E arriva la catarsi. Eccola. Un attimo prima sei tutta un "Cho ma porca merda non lo vedi che è un cesso?! Sposa Yamadori e lascia perde. NON TI MERITA"
Ed è proprio sul non ti merita che diventi madama Butterfly.
"Oh merda"
E allora cominci a giustificare. A chiederti come hai potuto vedere Darcy al posto di Pinkerton.
"Oh merda"
Non è autobiografia. E' semplicemente statistica. Succede a tutte. Che sia all'asilo, alle elementari o al centro anziani. Ce lo abbiamo nel DNA. Ad un certo punto, almeno mezz'ora nelle nostre vite, dobbiamo essere Butterfly.
E generalmente, possiamo dirlo non senza una punta di soddisfazione, la prendiamo meglio!
Catarsi.
Pinkerton è talmente disgustoso, talmente abietto, che anche alla fine, quando capisce fin dove ha fatto cadere Butterfly non è capace di provare compassione.
No signori miei.
Anche quando la stringe tra le braccia morente. Non è compassione, è senso di colpa. E c'è una bella differenza, credetemi.
Lui non si dispiace per lei. Non prova il suo dolore. Non sente i suoi singhiozzi.
Lui si dispiace per se stesso. Per il proprio rimorso. Per il ricordo di quella nota rossa sul registro (cit. Vedova Nera). Quello lo fa star male.
Non altro.
Non viene nemmeno toccato dal travolgente amore di quella bambina.
Dalla sua fede incrollabile.
Dalla cecità con cui ossessivamente ripete che lui tornerà perché la ama. E si fa beffe di tutti quando vede la nave. E non vuole vedere. Non vuole credere. Non vuole. Non sa. Non può.
Fino a che qualcosa di più importante accade.
E non è il Console, non è Suzuki, non è Kate "la moglie americana".
E' l'ultima cattiveria. L'ultima violenza. L'ultimo stupro.
Portarle via suo figlio.
E credetemi, borbottavo insulti verso Kate. Non perché avesse sposato Pinkerton (meglio te che io!), ma per la noncuranza con cui riusciva solo a chiedere se Cho fosse disposta a cedere il bambino.
E lei lo fa.
Accetta.
Accetta per il bene del piccolo, ma non solo. Accetta perché è stanca.
E davvero, la cattiveria della scena del bambino che cerca di raggiungerla, fermato da Suzuki e grida "mamma" mentre la domestica lo porta via, davvero, se la potevano risparmiare!
Cioè, ma davvero?
Come se non fosse stato abbastanza.
E intanto lei cantava, si muoveva, andava incontro al suo destino.
Ed è un male credere nel destino. Cavolo. Possiamo fare qualcosa, sempre. Sono le scelte, non il destino, a determinare le nostre vite.
Farfalla.
Ho pianto. Tanto. Disperatamente. In silenzio, più o meno.
Povera Butterfly.
"Nante koto da" o qualcosa di simile.
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